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    Via ospizio dei ciechi

Il toponimo non esiste da tempo nello stradario di Catania. Molti anni fa sembrò offensivo, e quindi via "Ospizio dei ciechi" divenne "Paolo Bentivoglio". Divenne insomma una via anonima come tante altre. Perciò scrissi questo piccolo ricordo nel 1988


Via ospizio dei ciechi, in cima a via Etnea, è strada stretta. Un cancello la sbarra in fondo. Dietro vi starebbero suore, ma nessuno le ha mai viste. Non v'era granché oltre l'ospizio: case basse, d'Ottocento, rosse, verdi le imposte, fra muretti neri a cinta d'orti e palmizi giganti. La casa dei Curcio ne custodiva quattro, palme, tra cornici di bosso.

La via Passo Gravina taglia la via dell'ospizio in due e poco sopra strozzava tra mura alte e rampicanti. Era ancora una trazzera e non la fiumana d'auto d'oggi, o d'acqua nei giorni di pioggia. Tra le pietre lisciate dai carri, sul pavé, ancora seccava qualche cacca di mulo. Dietro casa dei Curcio c'era un pollaio. A fianco la zia Maria, un donnone coi baffi, lavorava seduta sulla soglia, ma più spesso si formava crocchio intorno a lei e nelle sere d'afa estiva sino a tardi: poche parole e sguardi avidi.
Io li guardavo da su. La nonna e la zia abitavano in un palazzo nuovo di sei piani. A sud il terrazzo inquadrava la baia e le luci del porto fino ai faraglioni d'Acitrezza. A nord il cono dell'Etna e le nere falde imperlate di paesini. La notte brillavano tremule le lampare sulle onde. Io le contavo.

Era una via tranquilla. La mattina Don Carmelo scendeva dai paesi con la lapa piena d'ortaggi e frutta, e vanniava, vanniava. La nonna lo chiamava dal balcone e calava il panaro. Venti metri di corda. La vanniata era sempre la stessa, un'antica melopea. Si spegneva pian piano nelle vie adiacenti.
Nelle ore di caldo o di ghibli la via era deserta. Dopo i portinai bagnavano l'asfalto e spazzavano la sabbia o la lava caduta. La portinaia si chiamava Maurina e il marito, un mezzo malandrino col braccio offeso, girava con l'Alfa Romeo. Vanniava i figli al tramonto, ché tornassero a casa: A ttìa! A ttìa! I ragazzi di strada i genitori li chiamavano tutti così.

Si radunavano in cima alla strada, al cancello delle suore, per scenderla tutta con le carriole. Erano trabiccoletti fatti con poco. Bastavano un asse e due bastoni inchiodati sotto, uno fisso e l'altro mobile, con quattro cuscinetti a sfera. Ci si sdraiavano e cominciava l'avventura. I più temerari si spingevano sino a via Passo Gravina, dove la pendenza era forte. E scendevano tra urli di gioia con rumore di ferraglia inconfondibile.

La via era pista anche per un cirneco. L'uomo della casa grigia, che anni dopo subì un attentato, lo portava giù nelle ore fresche e il cane correva sino in cima alla via e tornava sempre al galoppo. Due o tre volte. L'attentato lo subì all'una, quando già via Passo Gravina era ingorgo di metallo semovente. Dormivo. Mi svegliarono gli spari. L'uomo gridava riverso a terra. Un ragazzino, come quelli delle carriole, scappava a gambe levate. Non aveva più di quindici anni, a considerare la statura e l'agilità. Si infilò nel budello di vicoli vicino al cancello delle suore. La pistola, rimasta a terra, sembrava finta. Luccicava di cromature. Poi seppi che era una pistola giocattolo modificata.

La baia ora non si vede più. I palazzi l'han nascosta. E nemmeno l'Etna, col suo fumacchio, si può vedere. Ma nelle sere d'estate i vecchi e gli sfacinnati fanno ancora crocchio da zia Maria.

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