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ON THE ROAD
Intervista a Robert Frank
INTERVISTA ESCLUSIVA DI RONG JIANG A ROBERT FRANK | NEW YORK, 22 LUGLIO 2007
◊ Come ha avuto l’idea di fare questo viaggio negli Stati Uniti e realizzare il progetto The Americans?
RF: All’epoca ero già stato negli States per 8 o 9 anni e non avevo ancora visto molto eccetto un giro d’un giorno nel New Jersey e un viaggio a St. Louis. Nutrivo una curiosità naturale per questo paese così vasto ed esteso da un oceano all’altro.
La mia curiosità ed energia mi spinsero a salire in auto e a guidare attraverso il paese. Lo feci in due volte. La prima fino a Detroit, mi sembra, e tornai a New York. Poi da New York arrivai fino in Texas, con la mia famiglia. Da lì proseguii da solo per San Francisco e Los Angeles.
◊ Alcuni ritengono che Walker Evans sia stato il suo mentore e le abbia dato una mano per richiedere la borsa di studio del Guggenheim.
Come si sa, il suo American Photographs, un libro di ispirazione per tutti, fu pubblicato nel 1938. Pensa che Walker Evans abbia influito sul suo lavoro, in particolare per The Americans?
RF: Credo di sì, sicuramente m’ha ispirato. Ma di per sé lui non c’entrava col viaggio, desideravo solo realizzare immagini indimenticabili, come le sue. Walker Evans non ha avuto nulla a che vedere con questo viaggio, fui spinto dalla mia curiosità.
Certo, avendo lavorato con Evans fui veramente coinvolto dal suo modo di fotografare le persone. Qualche volta l’avevo aiutato a realizzare scatti, vicino New York o presso alcuni stabilimenti. Ne ricordo ancora alcuni, di quelli che aveva fotografato. Il suo modo di lavorare e il risultato dei suoi lavori destarono in me una grande impressione, ecco cosa mi ispirò veramente.
◊ Come sa, Walker Evans ha esplorato a fondo l’autenticità offerta da cose normali o banali come un’automobile, una bottega di barbiere o la casa colonica di un contadino. Nel 1961 lei affermò: “oggi si può fotografare qualsiasi cosa”. Cosa intendeva esattamente?
RF: All’epoca, era il 1960, si era davvero liberi e molte personalità entrarono in scena, tra cui nuovi pittori, scrittori e poeti. Era possibile realizzare nuove cose, anche nel cinema. C’era più libertà. Sentivo che ciò valeva anche per la fotografia. E sentivo che dovevo rimanere fedele a ciò che vedevo. Ritenevo importante che anche altri lo vedessero.
◊ Sicuramente lei fotografava in modo diverso da Walker Evans. Lui utilizzava per lo più fotocamere di grande formato mentre lei usava una Leica 35 mm. Il suo stile fotografico è più spontaneo mentre le immagini di Evans sono più formali. Alcune sue foto sono fuori fuoco e, tecnicamente parlando, alcuni ritengono che le sue inquadrature non siano corrette. Penso però che lei intendesse rompere con i formalismi e con un modo di fotografare convenzionale. Secondo lei, qual è l’aspetto più importante del fotografare?
RF: Si è del tutto liberi e il fotografare comporta dei rischi. Non è che si sta facendo una foto alla propria sorella; probabilmente il rischio si corre perché non si sta scattando nel modo in cui le persone si aspettano. S’imbocca un percorso diverso e ciò implica alcuni rischi. Un artista che non sia disposto a rischiare non può definirsi tale.
◊ Si può dire che ciascuna generazione di questo paese abbia avuto qualcuno che lo ha attraversato On the road. Negli anni ’30 è stato Walker Evans, quindi lei negli anni ’50. Infine è stata la volta di Stephen Shore, negli anni ’70 e di altri fotografi, come il messicano Pedro Meyer e alcuni giovani americani.
Cosa pensa delle foto di Stephen Shore? Anche lui è arrivato fino in Texas e a Detroit. Le sue foto sono assolutamente diverse dalla sue, si è concentrato per lo più su scene di luoghi o strade senza persone e ha utilizzato pellicole a colori.
RF: Non conosco molto i suoi lavori ma ho notato che sono lavori molto nitidi, puliti. Sembra avere molta sicurezza in ciò che ritrae e su quanto decide di stampare.
◊ Una volta lei ha affermato: “Il momento decisivo non esiste, occorre crearlo”. Eppure sembra che The Americans abbondi di momenti importanti. Non li definirei “decisivi”; sembrano piuttosto “fuori centro”, immediatamente precedenti o successivi ai momenti decisivi di Cartier-Bresson. Io credo che Cartier-Bresson si riferisse alla precisione geometrica d’un momento, mentre lei è più interessato a cogliere un atteggiamento, un’espressione alienata e vuota sui volti delle persone. Come definisce i momenti nelle sue foto?
RF: Penso di offrire momenti migliori rispetto a quelli di Cartier Bresson o di chiunque altro. Le fotografie vengono raccolte in un libro, potrebbero essere 8, 10 o più immagini. L’impressione che se ne ricava proviene dal guardare questo libro di fotografie, non si pensa ai momenti ma alle sensazioni del fotografo in relazione a quanto ha visto. Non si tratta d’un aspetto estetico relativo a una buona composizione con una giusta luce, non è questo. Ha l’aspetto perfetto di ciò che è stato fissato al momento giusto, in modo diretto e nitido. Credo che ciò sia insito in tutte le fotografie di Walker. Quanto a me, lavoravo con più rapidità e meno considerazione della perfezione di un’immagine fotografica.
◊ Lei fece parte del gruppo dei curatori della mostra The Family of Man diretta da Edward Steichen ma lasciò il team prima dell’inaugurazione. Iniziò a lavorare al progetto The Americans nel 1955, nello stesso anno dell’apertura della mostra al MOMA di New York. Come mai prese questa decisione?
RF: Non volevo sentimentalismi.
◊ A tutt’oggi The Family of Man ha avuto numerose ristampe. È considerato uno dei libri di fotografia più diffusi nel mondo. Ritiene che il valore d’una fotografia risieda nella bellezza, intesa nel senso convenzionale del termine, o nella sua capacità di elevazione morale?
RF: Assolutamente no. Deve imprimersi nello spettatore e possibilmente rimanere nella sua memoria più a lungo di un’immagine televisiva o d’un rotocalco.
◊ Si dice che il volume The Americans sia un’imitazione del catalogo dell’esposizione The Family of Man di Edward Steichen del 1955. Sembra che vi siano chiari parallelismi tra i libri. L’introduzione di Jack Kerouac al suo libro per esempio viene considerata una parodia dell’introduzione di Carl Sandburg a The Family of Man. Lei è d’accordo?
RF: Non ho mai fatto confronti simili con Sandburg. The Family of Man è stato pubblicato in tempi diversi, nel 1955, se non sbaglio. Certo, ero su tutt’altra strada. Ero più interessato a una differente luce sulle sfaccettature degli Stati Uniti o all’assenza di luce sulla famiglia dell’uomo.
◊ Lei è considerato spesso un esponente della Beat Generation e il libro The Americans è visto come l’espressione e la rappresentazione visive dei valori promossi dalla Beat Generation. In precedenza però lei ha anche affermato che le sue responsabilità familiari lo rendevano comunque diverso da loro. Aveva dei figli e non condivideva il loro stile di vita. Conosceva qualcuno della Beat Generation già prima di realizzare The Americans?
RF: Frequentavo un gruppo di amici di New York, ignoro a quale gruppo appartenessero. Erano poeti, pittori e fotografi. Come sa, il termine “Beat” è stato coniato successivamente, non so da chi né perché.
Per quanto mi riguarda era solo un gruppo di persone con interessi in comune, che apprezzava la reciproca compagnia. In un certo senso erano tutti contro le regole generali dell’epoca, sentivano di potersi comportare diversamente e così facevano, ciascuno a proprio modo.
Per loro, essere parte della società non significava necessariamente avere un lavoro. Sembrava che non fosse necessario dover lavorare come le altre persone. Esistevano altre possibilità. Si poteva sognare.
◊ Nel 1957 lei conobbe Jack Kerouac, quindi gli chiese di scrivere l’introduzione del suo libro e andaste in Florida insieme. Che anno era?
RF: Non ricordo esattamente quando, ma sicuramente dopo esserci conosciuti. Voleva andare a prendere sua madre in Florida per portarla a stare in una casa che aveva acquistato a Long Island.
◊ Lei ha dichiarato che le piacevano i libri di Albert Camus e le poesie e le canzoni di Bob Dylan. Pensa che anche le sue foto esprimessero la filosofia esistenzialista? E ritiene che Bob Dylan abbia influito sul suo lavoro?
RF: Sicuramente sì, nei miei lavori personali, specialmente quando aggiungevo parole alle mie fotografie, o le graffiavo sui negativi. Fu un tentativo di renderle più dirette. Probabilmente la musica e la voce di Dylan mi diedero maggior sicurezza nel farlo.
◊ È opinione diffusa che gli scatti della serie di The Americans abbiano modificato l’estetica della fotografia e che lei abbia cambiato il modo in cui le persone guardano le fotografie. La progettazione del libro è anch’essa particolare: nell’edizione statunitense di The Americans del 1959, le didascalie delle fotografie furono inserite nella parte finale del libro. Un’innovazione, senza dubbio.
RF: Lei ha nominato due cose che hanno contribuito a cambiare il modo in cui le persone guardano una fotografia, ma non è dipeso da me. Io credo di aver indicato ulteriori possibilità di realizzare un reportage o di descrivere un viaggio. Il conseguimento di un buon risultato non implica necessariamente il rispetto scrupoloso di alcune norme giornalistiche.
In fondo si trattò di un giovane fotografo che osò scegliere personalmente le 83 fotografie del libro. Non fu l’editor a operare la selezione né la scelta fu guidata dal desiderio di allinearsi a Walker Evans o al libro di The Family of Man. Fu un’affermazione personale
◊ Alcuni ritengono che lei sia “fotografo svizzero e poeta americano”. In altri termini i suoi scatti risentono d’un punto di vista europeo piuttosto che classico americano. Come si diceva, prima di realizzare The Americans lei aveva vissuto qui già per 8 o 9 anni. Ritiene che gli scatti di The Americans risentano di un punto di vista più europeo?
RF: Un giovane che arriva dall’Europa e vede l’America lentamente finisce per diventare americano. Attraversare il paese on the road, fotografare e dire alle persone: “ecco l’America, queste sono le sensazioni che mi trasmette e il modo in cui mi ha trasformato” è senz’altro un buon sistema.
◊ Dunque lei pensa che giovane e appena giunto in America, comunque risentiva di un punto di vista europeo. Tuttavia aveva già vissuto in questo paese per qualche tempo, quindi cercò di adattarsi a un modo americano di vedere le cose.
RF: Credo che la mia formazione o il modo di guardare europei non abbiano avuto alcun impatto, mi sono adattato immediatamente. Il mio background non ha avuto alcun ruolo. Ciò che veramente ebbe importanza fu l’unicità dell’America, le sue automobili, l’enorme quantità di persone, le città terrificanti, gl’instancabili lavoratori, questo enorme paese in cui tutti parlano un’unica lingua. Fu un’intuizione, fui spinto a concentrarmi su questo aspetto dell’America, sull’unicità di questo paese, una sorta di ordinarietà.
◊ Le sue foto sono considerate estremamente narrative, come il cinema. Dopo la realizzazione del progetto The Americans, lei si reinventò letteralmente e iniziò a dedicarsi ai film. Nel 1959 realizzò insieme ad altri Pull My Daisy (il video integrale è a fondo pagina), un film importante considerato ancora oggi un classico del cinema indipendente. Per quale motivo fece questa scelta?
RF: Fu un passaggio logico. Dopo tanto tempo trascorso a riprendere immagini statiche e a guardare in un mirino aspettando il momento di scattare si inizia a pensare che vi sia qualcosa di più di un’immagine, prima e dopo. Viene naturale pensare al cinema. Inoltre un film può avere una voce e consente maggiore espressione.
◊ Poi negli anni ’70 tornò alla fotografia, pur continuando a interessarsi alla realizzazione di film e video. Nel 1972 pubblicò il secondo volume di fotografie, The Lines of My Hand. Qual è il suo significato?
RF: Potrebbe paragonarlo all’osservare i segni del tempo su un volto umano. In qualche modo si riesce a sentire il modo in cui la vita ha trasformato quella persona, negli anni. The Lines of My Hand è una metafora elementare.
◊ Perché negli anni ’70 decise di tornare alla fotografia?
RF: Dopo dieci anni trascorsi a dedicare le proprie energie alla realizzazione di film è possibile che si rimanga delusi. Mi dissi che forse era il momento di tornare a qualcosa di più semplice
◊ Quando riprese di nuovo, le sue fotografie erano molto diverse da quelle di The Americans. Credo che lei lo abbia definito il suo “ultimo progetto fotografico”. Le immagini realizzate a partire fagli anni ’70 sono più strutturate per esempio, come lei stesso ha ricordato, con parole scritte sulle immagini o graffiate sui negativi, penso a Tired of Goodbyes e altre.
RF: Perché cambiai formato. Non volevo continuare con una fotocamera 35 mm e optai per un formato più grande, con una fotocamera Polaroid 5×7. Non volevo assolutamente ripetermi e volevo una fotocamera che mi consentisse di staccare completamente dal 35 mm.
◊ Iniziò anche a comporre insieme immagini diverse. Si trattò quasi più di opere d’arte che di fotografie vere e proprie. Utilizzò anche la vernice, scrivendo parole che quindi colavano dalle fotografie… Un modo di fare arte decisamente contemporaneo, utilizzato ancora oggi. Ritiene che questi lavori debbano essere considerati opere d’arte piuttosto che fotografie?
RF: Desideravo solo cambiare il mio modo di lavorare. Non m’interessava che fossero opere d’arte o collage o arte grafica. Desideravo solo cambiare il mio modo di creare immagini.
◊ Gli ultimi lavori sono molto personali, densi di sentimenti ed emozioni, intensi e dolorosi. Su una nota più personale e privata, mi permetto di chiederle se ciò ha qualcosa a che fare con la morte tragica e prematura di sua figlia.
◊ “Andare avanti nella vita” sembra essere il tema principale delle sue foto più recenti, come indicano anche i titoli Moving Out e Holding Still, Going On. Si può dire quindi che il procedere avanti sia uno degli scopi fondamentali che desidera conseguire nelle sue fotografie?
RF: Penso che la vita stessa sia un continuo movimento in avanti. Se si rimane fermi, in un certo senso è possibile rimanere fermi e continuare il proprio lavoro, perfezionandolo e ampliandolo. Tuttavia per me questa è una situazione insidiosa perché si perde l’energia necessaria a creare qualcosa di nuovo.
◊ Nel 1971 lei si trasferì in Nuova Scozia con il desiderio di stare da solo. Rifiutò molte interviste e qualsiasi forma di pubblicità. Affermò inoltre che questo isolamento le era necessario per lavorare creativamente. Ritiene che la solitudine sia una condizione importante per un artista?
RF: Quando lasciai New York misi un cartello. “Torno subito”. Sì, stare da soli fa bene, aiuta, non so se mi spiego…
◊ Inoltre ha affermato che il suo sguardo rivolto all’esterno le consente di guardarsi dentro. Fondamentalmente quindi lei tenta di esprimere se stesso e i suoi sentimenti interiori cogliendo ciò che accade nel mondo. Tornando indietro nel tempo, dopo oltre 60 anni di esperienza d’arte e fotografia, cosa si sente di consigliare agli artisti delle nuove generazioni? Qual è, secondo lei, la cosa più importante che un artista deve tentare di realizzare?
RF: (Pausa di oltre dieci secondi) penso che dobbiate avere il coraggio di andare avanti, di andare oltre. Sì, andate oltre!
Traduzione di Claudia Marino | © Locus solus e Claudia Marino
RISORSE SU ROBERT FRANK
- Lens | 1958, Foto corporate di Robert Frank
- NPR | Tom Cole, ‘Americans’, the Book that changed Photography
- AtgetPhotography | John Szarkowski, from Looking at Photographs
- The New Yorker | Anthony Lane, The journey of Robert Frank’s “The Americans”
- NY Times | Articoli su Robert Frank
- Smithsonian | Richard B. Woodward, Robert Frank’s Curious Perspective
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