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    Rovistando in soffitta

La famiglia Alonzo, Scordia, 1904. Foto di Raimondo Palermo

I FORMATI FOTOGRAFICI NELLE FOTO DI FAMIGLIA

Da tempo custodisco alcune foto del ramo paterno della famiglia, che a sua volta mia zia teneva con cura. Malgrado ciò mostrano i segni del tempo, e dunque mi son dato a una sorta di restauro digitale. Questa foto di famiglia è stata scattata nel 1904, quando mia nonna Maria –in piedi davanti al padre Gesualdo Alonzo– aveva due anni. Ormai terribilmente sbiadita e rovinata, purtroppo. Ritrae un’allora numerosa famiglia siciliana. La madre Nedda, seduta accanto al marito, s’era fatta ritrarre il 28 luglio 1895 in un formato Margherita (sotto).

Nedda Alonzo. Formato Margherita, 1895
Nedda Alonzo. Foto di Raimondo Palermo, 1895

Osservando la foto si riesce a immaginare la preparazione per l’evento, ché questo era una foto di famiglia all’epoca: la scelta degli abiti, la preparazione e i ritocchi alle acconciature; la cura dei dettagli, come il papillon e la catena della cipolla che pende dal panciotto del baldo ragazzo in piedi, Salvatore Alonzo, probabilmente fiero di sfoggiare un orologio.

Jolanda Alonzo. Foto di F. Pezza, 1929
Jolanda Alonzo. Foto di F. Pezza, 1929

Mentre la bimbina che mamma Nedda tiene in grembo, venticinque anni dopo (1929, anno di grande crisi), si fa fotografare da F. Pezza in veste di bella e tenebrosa Mata Hari (a sinistra): si tratta della zia Jolanda, donna reputata bella e che di suo aggiungeva la vanità. A settant’anni suonati si truccava ancora di tutto punto e col rossetto modellava le labbra a cuore.
Il fotografo non s’è limitato ad ‘ambientare’ il ritratto secondo il tipico gusto degli anni ruggenti, ma ha anche lavorato per ‘migliorare’ il soggetto, tipico di tutta la storia del ritratto, pittorico e fotografico. Osservando bene gli occhi si nota un certo strabismo di Venere. L’ambientazione sottoesposta e d’atmosfera in questo caso corregge anche questo difetto.

Sempre F. Pezza firma lo stesso anno un altro ritratto della zia Jolanda. Ambientazione più tradizionale, che col tre quarti evita nuovamente lo strabismo di Venere, mi sembra d’interesse tuttavia proprio perché in questo caso il naso ‘importante’, diciamo così, è stato messo in risalto, invece che nascosto.

Jolanda Alonzo. Foto di F. Pezza, 1929
Jolanda Alonzo. Foto di F. Pezza, 1929

Molto azzeccato il contrasto tra le linee del naso e quelle di collo e spalle, di grande dolcezza. Così come mi sembra eccellente il dosaggio delle luci. La foto è dedicata ai miei nonni, che si erano sposati l’anno prima:
«A Maria e Mimì carissimi.
Affettuosissimamente, Jolanda
».

Sia questa foto che soprattutto la prima mostrano ‘affioramenti’, dai riflessi direi simili a quelli che potrebbe provocare un alogenuro d’argento. Ma non sono certo un esperto. In effetti il nonno Mimì (tipico vezzeggiativo dell’epoca, da Domenico) e la nonna Maria s’erano sposati nel 1928, ma non avevano avuto la fortuna d’imbattersi in F. Pezza.


LA FAMIGLIA ALONZO

Mia nonna era molto orgogliosa d’essere una Alonzo. Era una famiglia d’origini spagnole trasferitasi nel Seicento in Sicilia. Molto probabilmente funzionari reali, amministravano una zona nell’interno del Catanese che gli Spagnoli avevano ripopolato per sviluppare l’agricoltura.
Gli Spagnoli avevano approfittato del disastroso terremoto del 1693, che aveva letteralmente distrutto tutta la zona orientale della Sicilia, per ritrutturare profondamente grandi città come Catania, e ricostruire più all’interno paesi come Noto. Anche Grammichele, con la sua tipica pianta perfettamente esagonale, fu costruita all’epoca.

Gli Alonzo amministrarono Scordia, zona d’intensa coltura d’agrumi. Il bisnonno Gesualdo –nome tipico, reso immortale da Verga–, quello con i baffoni nella foto di famiglia, era notaio e fu sindaco del paese a più riprese; una volta che non si presentò –mi raccontava la nonna– i paesani se lo vennero a prendere di peso a casa e lo portarono in municipio.
Famiglia provinciale, dunque. Ma in cui si coltivavano anche grandi sogni. La zia Emilia, nella foto di gruppo in piedi con i capelli raccolti, scappò da Scordia e se ne andò a Roma. Grande scandalo, ma lei se ne infischiò e abitò tutta la vita nella ‘capitale’, che all’epoca costituiva particolare motivo di richiamo.
Tornava a Catania per litigare con mio nonno. Lei si definiva «fascista della prima ora», mentre mio nonno era uno dei pochissimi antifascisti ben noti della città, e quando arrivava qualche gerarca veniva mandato via, in esilio temporaneo. Soprattutto dopo lo «spiacevole episodio»: Mussolini venne una sola volta a Catania, nella stagione delle «ghette», quando il fascismo non aveva ancora messo gli stivali. Mentre teneva un comizio, qualcuno s’appropriò della bombetta del duce, e la utilizzò come vasino.

Salvatore Alonzo. 1918
Salvatore Alonzo. Foto di Carmelo Magno. Catania, 1918

Mia nonna sgranava i nomi di fratelli e sorelle come un rosario: «tredici figli fece mia madre. Tredici. Bianca, Maria…». «Come te, nonna?». «Morì giovane, e così mi diedero il suo nome. Elvira, Adele, Tatà, Totò…». «Chi è lo zio Totò, nonna?». «È questo in piedi, dietro la mamma e papà –mi rispose prendendo la foto e mostrandomela–  Ah, Totò, Totuzzo…».
Lo zio Totò non ebbe sorte, come l’altro maschio. Uno se lo portò via la «spagnola», un’epidemia influenzale che imperversò nel 1919, e l’altro morì sotto una granata. Lo zio Totò coltivava ambizioni letterarie, e questo piccolo formato margherita (a sinistra) restituisce lo spirito un po’ dandy del personaggio.
Le sue ambizioni letterarie costarono un patrimonio. Non solo scriveva drammi teatrali, ma coltivava passione soprattutto per la poesia. Volle tradurre I fiori del male di Baudelaire, ma nessun editore era intenzionato a pubblicarli. Così decise di pubblicare la raccolta a sue spese, ipotecando buona parte del terreno intorno alla casa paterna –il bisnonno nel frattempo s’era spento con un’arteriosclerosi galoppante. Il discreto successo dell’edizione lo imbaldanzisce, e così dà alle stampe uno studio su Byron.

Pubblica anche altri libri, ma viene il momento in cui la banca chiede la restituzione del debito. Lo zio Totò non ha liquidità, e chiede alla moglie Maria Rigano d’Acireale di coprirlo.

Salvatore Alonzo, Byron attraverso Don Giovanni, 1931
Salvatore Alonzo, Byron attraverso Don Giovanni, 1931

Ma la moglie, malgrado la dedica del libro di Byron («Questo libro appartiene tutto quanto a Maria mia, che lo vide nascere nel mio spirito insieme al nostro amore»), era persona molto suscettibile e pare che non avesse gradito certe ‘frequentazioni’ del marito. Così, per fargli dispetto, non rileva l’ipoteca e lascia che la banca si prenda tutto il terreno.
«In casa mia solo pesce e sale entravano, tutto il resto veniva da noi…». «Da noi, nonna?». «Sì, dal terreno». Ma un giorno, per un amore spassionato per Baudelaire e Byron, e forse qualche altro meno celebre ma non meno focoso, il terreno venne a mancare. Di questa grandiosa dissipazione a me restano due copie del Byron e una di Baudelaire.


I FORMATI FOTOGRAFICI DI CONSUMO

Dei vari cartoncini che posseggo alcuni posso datarli con certezza e quindi se ne può ricavare una sorta di evoluzione. Il formato Margherita, cui ho già accennato, è sicuramente il più antico, ma direi che col tempo cade progressivamente in disuso.
Questi formati ‘fototessera’ nascono in seguito al congresso internazionale di fotografia del 1889, nel quale si giunse a uniformare i formati delle lastre. Partendo dal dagherrotipo, di cm. 18×24 (dunque di formato 3:4), si creò una serie di sottomoduli, dividendo progressivamente la lastra. Dunque il primo sotto formato è di 12×18 (formato 2:3), il successivo di 9×12 (nuovamente 3:4), e l’ultimo di 6×9 (nuovamente 2:3, com’è ovvio).
Questa uniformazione non fu ovviamente drastica, per cui accade di trovare la mezza lastra, ufficialmente di 12×18, più grande d’un cm.: 13×18. Il formato Margherita, almeno come standard, utilizza un “calibro” (cioè una lastra) di cm. 10,5 x 7. In realtà era dedicato alla inglesissima regina Vittoria ma, importato in Italia, è stato patriotticamente dedicato alla regina nostrana. Ho già mostrato sopra il ritratto di Nedda Alonzo, mia bisnonna, datato al 28 luglio del 1895, e scattato dal «cavaliere Raimondo Palermo», specialista in «ingrandimenti e ritratti su porcellana».
Il cartoncino corrisponde perfettamente alle misure standard del formato Margherita, 12,6 x 8, ma la foto risulta ridotta di qualche millimetro. Lo standard prevede 10,5 x 7, mentre questa è di 10,2 x 6,8. O si tratta di uno ‘scontornamento’ un po’ più ampio, oppure si tratta d’un modo per guadagnare più foto dalla stessa lastra.

Bianca Alonzo, 1904
Bianca Alonzo, Foto di Raimondo Palermo, 1904

Un altro formato Margherita si può datare al 1904. Ritrae una delle sorelle maggiori della famiglia, Bianca Alonzo (a sinistra), che indossa la stessa veste del ritratto di famiglia e presenta gli stessi sbiadimenti di quella foto.
È probabile che la foto sia stata scattata nello stesso periodo, probabilmente nella stessa sessione, e dallo stesso fotografo, il cavaliere Palermo, fotografo messinese che scatta anche la foto della madre cinque anni prima: questa foto è timbrata sul retro del cartoncino, e dunque ricavo per lo sbiadimento e il soggetto che anche il ritratto di famiglia sia dello stesso fotografo.
La singolarità di questa foto è che la lastra ha le perfette dimensioni del formato Margherita, ma è stata montata su un cartoncino più ampio ed elaborato: un modo per dare risalto e importanza a questo piccolo formato.
Il soggetto sembra un po’ altero. Credo dipenda dallo sguardo: quell’orientamento dall’alto in basso suggerisce un atteggiamento di supponenza di cui invece era priva Bianca Alonzo, nota come donna dolcissima. Probabilmente gli occhi bassi tradiscono invece un leggero imbarazzo: anche nella foto di famiglia è stata incapace d’un sorriso pieno come la sorella seduta al suo fianco, ed è l’unica di tutto il gruppo, se si esclude la sorellina più piccola, a non guardare verso l’obiettivo. A dire il vero anche Totò Alonzo, in piedi dietro i genitori, guarda altrove, ma suppongo che già allora fosse immerso nel suo mondo poetico e letterario.

Bambina. Foto di Carlo Marino
Bambina. Foto di Carlo Marino

I due formati Margherita che ritraggono Nedda e Bianca Alonzo sono d’una certa qualità. Ne ho un terzo (a sinistra) che mostra anche la versione popolare di questo celebre formato. Non è bimba della famiglia. Credo si tratti della foto d’una delle balie, da piccola.

Mi stupiva questa quantità di foto di balie con dediche affettuosissime nei confronti dei pargoli, ma se si pensa a una famiglia con molti figli si comprende facilmente quanto importanti fossero le balie, quanto stessero con i bimbi, e quali rapporti d’affetto si sviluppassero.
Il taglio ‘popolare’ di questo formato Margherita si ricava da alcuni fattori: La vistosità del cartoncino, caratterizzato da uno scontornamento a zig-zag, che probabilmente doveva far colpo.
Tuttavia manca dei tipici bordi dorati degli altri cartoncini, che sicuramente avevano costi superiori. E l’ombreggiatura della cornicetta interna fa supporre che riceva luce dal basso; probabilmente un errore del tipografo che voleva suggerire l’effetto opposto, da passe-partout in rilievo. La foto è priva di viratura seppia, tipica dell’epoca: un passaggio in meno. E per di più manca della tipica sfumatura ai bordi. Insomma la foto è stata sviluppata col minor numero di passaggi.
Lo sfondo, che quasi mai appare nei formati Margherita, è dozzinale, dipinto molto alla grossa, e anche l’inquadratura non è curata: non ci voleva molto per ottenere un’inquadratura parallela al fondale. Anche la posa è sbrigativa: il fotografo non ha perso molto tempo ad attendere che il soggetto fosse a suo agio. La figura è inclinata, la bimba chiaramente imbarazzata non sa bene cosa fare e si torce un braccio, una spalla è incassata e sembra persino un po’ rachitica, a dispetto del volto paffuto ma malinconico. Anche il timbro del fotografo è laconico, e non vanta alcuna specialità o titolo onorifico come i suoi colleghi: «fotografia Marino Carlo».

Francesco Zinno. Foto di Giovanni Tudisco. 1935 circa
Francesco Zinno. Foto di Giovanni Tudisco. 1935 circa

Questa foto è un po’ più grande del formato Margherita, ma non raggiunge, per poco, il formato album (cm. 13,7 x 10). Ritrae il figlio d’una delle sorelle Alonzo, lo zio Ciccio (a sinistra). Emergono chiaramente le differenze, se confrontata con la foto della bimba.
Anzitutto questa foto, che è tuttavia più recente (più o meno della metà degli anni Trenta), ha una qualità ottica notevole, che la scansione non restituisce: grana inesistente, gamma dei grigi superba, ricca di dettaglio e calibratissima nelle luci.
Marino Carlo non ha saputo evitare una robusta bruciatura della veste della bimba, mentre Giovanni Tudisco ha buon gioco col nero. La scenografia è essenziale, e tuttavia costruita appositamente per la foto di bimbi: simula una stanza, ma la decorazione in finto marmo è molto bassa, e ciò garantisce che non soverchi la piccola statura dei bimbi.
Il fondo è stato sapientemente sfocato, mentre nella foto della bimba disturba parecchio: è brutto e per di più nitido. Anche il pavimento, in questa foto, con le sue tinte scure, mette in risalto la figura, mentre il pavimento chiaro dell’altra foto si confonde con le calzature, e per di più vi sono detriti che danno un’idea di sciatteria.
Il cavallino è calibrato sui toni della scenografia, e ovviamente ha un ruolo non secondario par mettere a suo agio il soggetto. Il bimbo è chiaramente in posa, ma risulta ‘naturale': s’appoggia al dorso del cavallino, incrocia una gamba, e volge la testa verso l’obiettivo, con aria distesa, come fosse stato distolto per un secondo dai suoi giochi. Massima nitidezza sul soggetto, ma ‘dolce’, e sul cavallo, che però risulta in secondo piano, per i suoi toni, e non disturba dunque l’attenzione dell’osservatore.
Questa foto insomma mostra grande perizia e professionalità: l’inquadratura decentra il bimbo sui 5/8 (1:1,6), mentre la bimba è rimasta impalata al centro, il fotografo ignaro dei suggerimenti di Le Gray e di secoli di ritrattistica.

Domenico Nicosia, circa 1893
Domenico Nicosia. Foto di Benincasa, circa 1893

Carmela Nicosia. 1905
Carmela Nicosia. Foto di S. Grita,  1905

Credo che il formato Margherita sia progressivamente scomparso nei primi anni del Novecento. Grande per le esigenze della fototessera, piccolo come ritratto. Comincia a competere subito con questo formato, già a fine Ottocento, il formato Visita, leggermente più piccolo. Poiché di queste foto si facevano stampare decine d’esemplari, da distribuire appunto come biglietto da visita, la riduzione di formato portava infine a un risparmio probabilmente significativo. Dal formato di 12,6 x 8 del Margherita si scende a 10,4 x 6,2.
Eccone sopra due esempî, il primo di fine Ottocento e il secondo dei primi Novecento. Singolare l’ambientazione boschiva della prima foto, che fa a pugni con la veste raffinata e molto urbana del bimbo.

Domenico Nicosia. Foto Martinez, 1908
Domenico Nicosia. Foto di Luigi Martinez, 1908

Domenico Nicosia. Foto Martinez, circa 1918
Domenico Nicosia. Foto di Luigi Martinez, circa 1918

Nei primi del Novecento si affermano formati più piccoli e facilmente portatili (sopra). Il primo s’approssima a un formato Turista (10,8 x 6,7), il secondo è del tutto fuori da qualsiasi standard: le esigenze stilistiche s’impongono sulla standardizzazione, e si direbbe voglia approssimarsi a un segnalibro.

Entrambi gli scatti sono del fotografo Martinez, che ha fotografato la mia famiglia sino al 1960. il primo è del 1908, il secondo d’un decennio successivo.
Ambedue raffigurano il mio nonno paterno, Mimì Nicosia. Il primo scatto lo usa per iscriversi all’università regia, ma francamente non è all’altezza del fotografo (credo che Martinez sia l’unico studio fotografico sopravvissuto tra i tanti a Catania d’un secolo fa): ben visibile il taglio storto dell’inquadratura che la sfumatura non riesce a coprire.
Attraverso questi scatti non solo si può osservare la crescita del soggetto, ma anche la metamorfosi del gusto: lo stemma sabaudo del primo viene soppiantato da un logo in pieno stile Liberty. Anche il cartoncino, scuro e stretto, sottolinea la foto e le dà slancio.

Domenico Nicosia, 1928
Domenico Nicosia. Foto di F. Pesce, 1928

Una foto del 1928 del nonno Mimì, che presento senza il suo importante passepartout, mi sembra testimoniare la fortuna del pittorialismo. L’effetto molto flou, la resa plastica ma morbida del ritratto, stemperato d’ogni dettaglio, la grana fine e il trattamento virato che ricordano la gomma bicromata mi fanno pensare che il fotografo catanese F. Pesce fosse appassionato dei ritratti alla Steichen. Sicuramente il nonno apprezzò molto questo ritratto, che fece stampare in numerose copie.

Ecco un riepilogo dei vari formati e delle loro dimensioni, che mostra chiaramente il processo di riduzione che porterà alla fototessera e infine alla Polaroid.

riepilogofotovisita

Da un lato, dunque, il formato Margherita viene incalzato da formati più piccoli, portatili ed economici, e dall’altro invece da formati più grandi, uno dei quali conobbe una diffusione planetaria: il formato cartolina.

Domenico Nicosia. Foto di Cavaja, Torino, 1916
Domenico Nicosia. Foto di M. Cavaja. Torino, 1916

Lo usa mio nonno per fugare le preoccupazioni sulla sua salute ai tempi della Grande guerra: si fa ritrarre con la sua divisa d'artigliere e spedisce la cartolina a casa con scarne parole, ma rassicuranti: «Tanti saluti ai dubbi».

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